"A poco a poco si penetra nel movimento
nella sua profondità,
alla ricerca della Permanenza." Jacques
Lecoq
Qualche seme per iniziare a conoscersi.
Non fermarti alle parole, senti a cosa puntano.
Buon ascolto.
- Maschere mobili e
maschere fisse
- "Vedere il
meccanismo del nostro funzionamento.” Eric Baret
Ogni immagine di sé stessi è una maschera. Le maschere sono di due
tipi, mobili e fisse. Le maschere mobili sono quelle che nascono dalla
situazione che viviamo di momento in momento, ad esempio madre con i
figli, amante con la compagna, guascone con gli amici, sergente con i
soldati, oppure Amleto su un palcoscenico. Queste maschere sono leggere
e funzionali, sorgono dall’ascolto del momento presente e si integrano
con la situazione nella sua globalità. Da questo ascolto, emerge la
risposta appropriata, l’azione giusta, e una volta terminata la
situazione la maschera svanisce nell’ascolto senza residui psicologici,
per accogliere altro in modo fluido e intelligente secondo tutte le
variazioni che la vita propone.
Le maschera fissa invece è la personalità, l’ego, quella per cui ci
prendiamo in maniera seria e continuata, l’immaginario storico
personale dovuto alla memoria, al nostro condizionamento sociale,
famigliare, culturale, attraverso il quale vediamo una frazione della
situazione (e del mondo) che va inevitabilmente in conflitto con le
visioni frammentarie di altre maschere fisse (sono incluse dinamiche
molto profonde acquisite in epoche remote). Come un cattivo attore ci
identifichiamo totalmente e pesantemente col personaggio che
interpretiamo andando verso tutto ciò che conferma la realtà (effimera)
di questa maschera, combattendo chi e cosa la mette in discussione.
La rigidità di questa maschera non lascia fluire le diverse situazioni
e anzi impone loro la propria immagine seguendo gli schemi reattivi di
desiderio/paura, separandoci dall’ambiente. Chi si prende per sergente
lo sarà anche con i figli, chi si attacca morbosamente all’immagine di
madre per dare un senso alla propria vita, non lascerà crescere i
propri figli, chi si vede come vittima lo farà pesare in ogni contesto,
arrivando a certe disarmonie funzionali con l'ambiente che generano
tensioni e sofferenza dentro e attorno a noi. Non c’è scelta in tutto
questo. Se la grazia ci attraversa si può realizzare tutto questo
funzionamento.
Perché ci irrigidiamo nella personalità fissa e non la lasciamo andare
come le maschere mobili una volta finita la situazione? Per paura.
Paura di non esistere, paura di morire. Paura del vuoto, che è la
Realtà di ciò che è. Ma il finito non può raggiungere l’assoluto, la
tazza non può contenere il mare, la mente/maschera non può concepire il
vuoto da cui emerge perché è indefinibile. Lo vede come un'assenza di
forme, di vita, e si aggrappa con ostinazione al pieno, alle immagini
di sé. In realtà quel vuoto è il Vuoto secondo le tradizioni orientali,
l'Apertura, la Coscienza senza oggetto, un campo illimitato di
possibilità, l’Essere prima di ogni qualificazione, da cui possono
sorgere (e riassorbirsi) tutte le maschere appropriate per ogni
situazione differente.
Non possiamo intenzionalmente levare le maschere. Chi vuol levarsi le
maschere? L’io, la maschera fissa. Questo rifiuto di portarle parte
comunque dall’agitazione della maschera stessa che si fa il film che
saremmo migliori senza. La maschera per darsi un benessere psicologico
crea e nutre una storia temporale, una fantasia di evoluzione,
purificazione, miglioramento personale sperando in un futuro diverso
(che non arriverà). Questo è il sogno che tutti viviamo, che prendiamo
come reale finché ci crediamo ma che, visto per quello che è, perde la
sua natura illusoria. Perché illusoria? Perché come dice Jean Klein,
“la mente non cambia la mente” ma può solo illudersi di poterlo fare.
Presto l’insoddisfazione ritorna e allora si cambiano lavoro, casa,
città, partner, alla ricerca di qualcosa che è dietro di noi, l’ascolto
globale di tutte queste storie.
Questa commedia personale ha comunque la sua ragione di essere finché
dura e ci crediamo, è comunque un’espressione delle possibilità della
Coscienza. Ma se la Grazia bussa attraverso la personalità (anche in
modi più o meno dolorosi), ci si può rendere consapevoli della realtà parziale
della maschera fissa, vedendo come sia agitata, tesa e inappropriata
alle innumerevoli situazioni che la vita propone, senza frustrarsi per
questa reattività ma anzi gioendo di vedere il suo funzionamento
all’opera e quindi di esserne consapevole.
La visione infatti è la consapevolezza.
La consapevolezza di questo condizionamento fisso è la libertà, cioè si
sente che la maschera fissa appare sull’Essere e si vive la verità
universale che non siamo solo una immagine personale limitata, bensì
l'Apertura globale, su cui ogni maschera, il corpo, le emozioni, i
pensieri e il mondo appaiono.
E pian piano, da sola, osservando le sue reazioni inappropriate e
violente con la delicatezza che si ha con un cucciolo, la maschera
fissa diviene meno densa, meno reattiva e nello spazio tra
un’identificazione e l’altra emerge ciò che siamo, o meglio cio che è, ascolto globale (e non più
personale) su cui il mondo, il nostro corpo, il senso dell’io separato
e le sue situazioni appaiono. Si comincia così a vedere quando agiamo in modo funzionale e
appropriato alle circostanze oppure re-agiamo
secondo i desideri, le difese, le resistenze, le paure della nostra
maschera fissa, la personalità, l’ego.
La cosa più difficile da accogliere per la mente è che non ci sia da
fare nulla, ogni fare con intenzione proviene dalla maschera che
resiste e difende sé stessa. Basta, come dice Baret, “vedere il
meccanismo”, questa visione si farà carico tutto il resto. Se non
credete possibile questo senza usare qualche metodo, strategia,
pratica, siete totalmente identificati alla maschera fissa, e forse
sentirete anche dell’irritazione leggendo queste parole. Nessun
problema, non avete scelta, significa che per voi è ancora appropriato
che l’identificazione con il sogno continui. C’è Shiva anche lì.
Se invece avete sentito una gioia perché questo orientamento incarna un
vostro sentire profondo, allora non c’è più necessità di fare nulla con
l’intenzione di ottenere qualcosa, restate in ascolto di quello che vi
attraversa (anche quando torna la fantasia di ottenere qualcosa di
spirituale con la pratica). Non c’è più verità da cercare, ciò che
sentite è la Verità. In questa apertura non ammobiliata da intenzioni e
pratiche utilitaristiche, la gioia senza causa farà da sola capolino
nel corso delle vostre giornate, sorprendendovi quando meno ve lo
aspettate.

- La quiete dentro
la tempesta
"La suprema quiete non è la mente vuota e rimane durante tutte le attività." Jean Klein
Chi pratica yoga o medita potrebbe pensare che
la tranquillità sia soggetta a una posizione corporea e a un respiro
regolare in uno spazio isolato, lontano dalla frenesia della vita di
tutti giorni. Quando poi nella quotidianità si vivono situazioni
conflittuali che innescano emozioni intense, ci si agita per il
sopraggiungere di tensioni e si cerca di recuperare l’equilibrio
reprimendo la vita emotiva e inseguendo quello stato ideale che si
aveva durante la pratica.
Le emozioni e
la tranquillità non sono contrastanti anzi, la tranquillità è
l’apertura che consente alle emozioni di dispiegarsi completamente e
dissolversi nella tranquillità stessa. La suprema quiete come la chiama Jean Klein, ascolta gli stati di
tensione fisica ed emotiva nella globalità invece di bloccarli,
controllarli o dirigerli seguendo l’agitazione mentale. Le emozioni non
sono un problema, la pretesa di non volerle sentire perché si “perde la
calma”, sì.
I maestri delle arti da combattimento dimostrano che si può vivere la
calma in mezzo a un confronto violento dove il corpo, il respiro e il
battito cardiaco si muovono a ritmi vorticosi. Non solo, un’arte
marziale è efficace proprio quando la frenesia delle azioni fisiche non
pregiudica l’apertura che osserva imperturbabile il combattimento nella
sua globalità, senza perdersi in un punto di vista personale e limitato.
l teatro integra la stessa possibilità a livello emotivo. Un attore può
interpretare un assassino violento nella più completa tranquillità,
sentendo tattilmente tutte le tensioni della scena senza che lui sia
personalmente alterato, così da non far alcun male reale ai colleghi e
a sé stesso, rimanendo presente a tutto nell'intensità del gioco
teatrale. Questa consapevolezza profonda gli permette di scatenare
uragani emotivi credibili, nel pieno della lucidità.
La presa di coscienza di questa possibilità apre un campo di
esplorazione nella vita di tutti i giorni. Nelle varie circostanze
conflittuali che capitano, se non ci si lascia portare via mentalmente
dalla situazione, si può sentire
l’agitazione, la paura, la rabbia nelle loro manifestazioni tattili nel
corpo senza essere agitati, impauriti e rabbiosi. Questo ascolto
è la tranquillità profonda assoluta e non la calma creata dalla mente
vincolata a condizioni di respirazioni e posture.
Il teatro non duale esplora quella tranquillità profonda mentre si vive
una frenesia di azioni fisiche ed emozioni poderose per rispondere in
modo appropriato, autentico e integrale alle situazioni della vita di
tutti i giorni.
Si può vivere la quiete durante
la tempesta.

- L'emozione non
concettuale
- Il teatro non duale celebra l'emozione non
concettuale. Nella vita di tutti i giorni colleghiamo l'emozione alle
sue cause apparenti e la blocchiamo nella storia della nostra
personalità, la maschera. Sul palcoscenico, paradossalmente, attraverso
il personaggio (una maschera con desideri e paure analoghe alle
nostre), l'attore vive l'emozione in una corporeità disponibile che
consente il suo dispiegamento globale e il suo riassorbimento
nell'ascolto una volta finita la scena.
La pratica sulla scena consente di rendersi disponibili al sorgere di
emozioni sempre più intense, in un corpo sempre più ricettivo senza una
distorsione psicologica. Come è possibile? Senza un riferimento alla
maschera personale (ego), l'emozione è libera di rivelarsi in tutte le
sue forme attraverso una maschera teatrale che protegge dalla paura di
scomparire nell'Intensità della vibrazione (cosa che accade senza che
l'io se ne renda conto).
Per chi è maturo a lasciarsi andare, si apre allora un campo di
esplorazione su sé stesso che porta svelare quell'Intensità anche nella
vita di tutti i giorni.

- Paura e cambiamento
- "Gli
avvenimenti che si presentano sono sempre inediti, ma per paura ci
sembra di riconoscere le situazioni. Il nostro primo istinto è di dire
no a ciò che mette in questione i nostri riferimenti personali." Eric
Baret
Sulla scena un attore deve essere disponibile e ricettivo per
accogliere tutti gli impulsi che gli consentono di trasformare e dare
luce a tutte le sfumature della vita; quando questo accade, una
maggiore intensità si dispiega. E' una delle cose più importanti e
difficili da imparare per via di una innata resistenza al cambiamento
che deriva dalla paura.
Nella quotidianità infatti, la nostra personalità, la nostra maschera,
rifiuta le sollecitazioni della vita per paura del cambiamento,
dell'ignoto, dell'imprevisto, continuando a dire "no" per difendere i
propri schemi, le proprie piccole certezze.
Così facendo si guadagna in sicurezza psicologica ma si perde la
possibilità di vivere globalmente le situazioni che si presentano e,
come accade guardando uno spettacolo monotono, anche la vita di tutti i
giorni annoia e perde l'intensità.

- Intensità e vita
quotidiana
- Un personaggio sulla scena pena, soffre e
reagisce emotivamente a tutto ciò che gli capita. L'attore che lo
interpreta gioca a vivere queste emozioni in modo intenso e autentico
senza essere implicato psicologicamente. Sente la rabbia nelle tempie,
ma lui non è arrabbiato. Sente la tristezza nella gola, ma lui non è
triste. Sente la gioia nel cuore, senza essere gioioso. Le emozioni
sono evocate e vissute a fondo ma in piena lucidità. Alla fine della
scena, lui è accaldato, sudato, ma senza residui dentro di sé, libero.
Questa alternativa di esperire profondamente e liberamente la vita è
possibile anche nella vita di tutti i giorni in ogni situazione che la
nostra personalità/maschera affronta.
- La maschera e
l'immaginario
- Il
teatro non duale aiuta a scoprire sé stessi,
il proprio funzionamento, i propri meccanismi reattivi davanti alle
circostanze della vita. Celebra l'apertura al sentire del momento
presente che nella vita viene continuamente bloccato dalla nostra
"storia" personale che se ne appropria per sopravvivere
psicologicamente e non svanire nell'intensità della vibrazione. Invece
di
lasciare vivere l'emozione fino in fondo e lasciarla andare, noi la
blocchiamo nel nostro punto di vista sul mondo, la maschera, cioè
l'immaginario individuale di desideri, paure, rimpianti e rimorsi del
passato, speranze per il futuro.
Un attore sulla scena fa la stessa cosa per interpretare un
personaggio, si crea cioè l'immaginario di essere qualcuno e gioca a
soffrire le aspettative frustrate, i conflitti irrisolti, le grandi
passioni represse. Vedere il funzionamento del personaggio sulla scena
può portare una consapevolezza di come nella vita di tutti i giorni la
nostra maschera si infili negli stessi tunnel che portano tutti al
medesimo esito, sofferenza reiterata e conflitto senza fine.
- Cogliere
l'inaspettato
- Il teatro svela la vita.
Nelle improvvisazioni quando un attore entra in scena con una idea
pregressa di cosa fare, il risultato risulta forzato, complicato e
artificioso. Invece di cogliere quello che la scena (il compagno e la
situazione) spontaneamente offre e scoprire cosa suscita istante dopo
istante nella sua immaginazione e sensibilità, l'attore spinge per
imporre la sua idea. Questo volontarismo chiude la cooperazione, la
creatività, l'intensità e l'imprevedibilità che sono il sale del
teatro.
Nella vita accade lo stesso, per paura di cosa accadrà e di restare
vuoti, noi ci ammobiliamo di idee, progetti e propositi per il nuovo
anno. Così facendo, l'idea di avere un programma ci dà sicurezza ma ci
fa perdere in possibilità. La nostra intenzione infatti vela lo sguardo
sugli impulsi freschi e nuovi che la vita dà ogni giorno ma che non
sapremo cogliere perché filtreremo tutto in base a ciò che corrisponde
al progetto, scartando ciò che non si addice a lui. Così facendo, noi
riproporremo il nostro passato e ripeteremo le stesse esperienze sotto
forme diverse in tutti gli aspetti della vita (sociale, sentimentale e
lavorativo).
Vedere il meccanismo di questi nostri comportamenti e l'agitazione da
cui sorgono, ci riporta alla calma che consente di non incollarsi a
progetti immaginari ma vedere la vita nella sua integrità. In questa
apertura non ammobiliata si vedono delle aperture, delle vie, delle
possibilità emozionanti che non avevamo neanche sospettato e si inizia
a prendere confidenza con l'incertezza della vita, vista ora come una
campo aperto di possibilità.
"L'improvvisazione è rinunciare al previsto per cogliere l'Inaspettato"
(Ariane Mnouchkine)
Ti auguriamo di lasciare il previsto e aprirti all'Inaspettato.

- Identificazione e
distanza
-
La storia del teatro e le teorie della
recitazione
del XX° secolo hanno
definito i due estremi in cui oscilla l’arte
dell’attore. Da un lato una totale identificazione col personaggio e le
sue emozioni e dall’altro una completa distanza da ciò che si
interpreta. La prima
conduce a interpretazioni intense ma prive di lucidità, la seconda a
una espressività misurata che non tocca il pubblico anche se
tecnicamente perfetta.
Come intuitivamente si sente, la
verità è una sintesi di due opposti
quindi, come i grandi maestri del teatro contemporaneo dimostrano,
attraverso l'autentico gioco (come viene chiamata in molte lingue la
recitazione) l'attore arriva a identificarsi con una distanza minima
che
consenta di essere liberi e consapevoli di ciò che interpreta in una
duplice dinamica (attivo in espressione, passivo in ricezione degli
impulsi esterni e interni che alimentano).
Giocare a identificarsi, vivere una vicinanza che inneschi l’emozione
ma una distanza che consenta la lucidità, la consapevolezza e il
giusto disegno espressivo. Questo equilibrio tra distanza e vicinanza è
proficuo non solo
per l’attore ma anche per il teatro in generale.
“Il teatro ha bisogno della
vicinanza della realtà e della distanza del
mito perché se non c'è distanza non ti meraviglia e se non c'è
vicinanza non ti emoziona." Peter Brook
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